Viaggio negli Stati Uniti, 2017

Da non molto sono tornato dagli Stati Uniti, dove ho trascorso un periodo di due mesi e mezzo, ed ecco quindi alcune impressioni che ho avuto da questo viaggio.

Ho passato gran parte del tempo sulla costa ovest, soprattutto nell’area di Los Angeles (California), ma ho visitato anche Las Vegas (Nevada), New Orleans (Louisiana), e ci è scappato anche qualche giorno in Baja California, che fa parte del Messico.

Prima di scrivere in dettaglio dei vari posti ci tengo a fare una considerazione generale, e cioè che ancora una volta mi sono reso conto di quanto viaggiare per il mondo sia infinitamente più educativo che andare a scuola o all’università! Ho visto così tanti posti nuovi, parlato con tante persone nuove che ragionano e si comportano in maniera “differente”, e ogni volta pensavo “davvero interessante” e “scoprire tutto questo è incredibilmente più utile del mare di inutilità studiate sui banchi per anni e anni!”.

Inevitabilmente metterò a confronto quello ho visto con il mondo a cui sono abituato, cioè l’Italia (soprattutto) e la Spagna, che sono i due paesi in cui vivo la maggior parte del tempo.

California

Dell’area di Los Angeles ho avuto davvero una prospettiva fortunata, essendo stato in parte ospite di un amico che vive fuori città, sulle montagne dietro Santa Monica, e in parte ospite di un’amica che vive in città, nel quartiere Sherman Oaks. Iniziamo con le montagne.

Santa Monica mountains. Un po’ a sorpresa, considerando quelle che avrebbero potuto essere le aspettative per un viaggio a Los Angeles, il carattere principale e più bello di questo periodo è stata sicuramente la natura. Ho vissuto immerso in un parco naturale, in una posizione davvero unica a un’ora dal centro città, a venti minuti dalla famosa spiaggia di Malibu, e soprattutto a due minuti di cammino da una quantità incredibile di animali selvatici.

Essendo cresciuto parzialmente in campagna di animali ne ho visto tanti nella mia vita, per cui non è facile impressionarmi. Eppure qui parliamo proprio di un altro ordine di grandezza. La mattina uscivo presto per una passeggiata tra i sentieri, e tempo pochi minuti dopo aver lasciato casa iniziavo a vedere un numero straordinario di animali. Mi ha fatto venire in mente quanto ho sentito dire da alcune persone anziane, cioè che “un tempo” si vedevano molti più animali nei giardini e nelle campagne: probabilmente era così che doveva essere un po’ dappertutto a quei tempi, pensavo camminando.

Oltre ad essere tanti, gli animali mi hanno affascinato per il tipo: avevano forme e colori che non avevo mai visto prima. Anche gli animali più comuni erano comunque un po’ diversi rispetto a quelli delle mie zone. Ad esempio le lucertole “semplici”: in California tendono ad essere più grandi, più scure, con squame pronunciate. Poi naturalmente c’erano le lucertole ben meno “semplici”: ne ho vista una con la coda azzurra (!) e più volte ho avvistato la simpaticissima lucertola cornuta, che si è meritata un video personale:

Tra gli animali selvatici che ho incontrato sulle montagne di Santa Monica ci sono: conigli (tantissimi), rane, tartarughe, serpenti, procioni, quaglie, aironi, nitticore, picchio, coyote, scoiattoli “normali” e di terra, anatre “normali” e dal becco azzurro, folaghe, grackle, colibrì, lince, cervo, banchi di centinaia di baby-pesci gatto, nuvole di farfalle. Nella mia passeggiata tipica tra i sentieri vedevo una selezione di animali appartenenti a 5/6 di queste specie, più molti altri mai visti prima a cui non so associare un nome, a meno di usare una lunga descrizione (soprattutto per gli uccelli e gli insetti).

Ecco un mini-documentario che ho prodotto in questo periodo:

Nel video sono riuscito a inserire solo una parte degli animali che ho visto. Molti altri avrei voluto inserirli ma erano troppo difficili da filmare, o perché troppo mobili (ad esempio il colibrì che si spostava in continuazione) o perché troppo timidi e scappavano velocemente. Questa “timidezza” in realtà l’ho notata in tutti gli animali della zona, e immagino dipenda dal fatto che l’ambiente fosse estremamente competitivo (tradotto: stai sempre in guardia o verrai mangiato).

Dal video si vede anche un po’ com’è la vegetazione della zona: pochissimi alberi alti o boschi, ci sono invece quasi esclusivamente arbusti bassi e adatti al clima secco. Tantissime le piante di salvia (che mi piaceva annusare continuamente durante le mie passeggiate).

Malibu. Prima di arrivare a Los Angeles città, qualche nota su Malibu. Questa è l’area costiera famosa per essere la residenza di tantissime celebrità di Hollywood, dove le case costano (tanti) milioni di dollari. In teoria questa dovrebbe essere una delle aree con più alta domanda non solo di Los Angeles, ma al mondo.

Per questo motivo mi è sembrato strano che, almeno nelle volte in cui ho camminato sulla spiaggia, buona parte di quelle case favolose sembrassero vuote. Pulite e in ordine, ma vuote. Terrazze con nessuno a prendere il sole, al massimo solo una domestica a fare le pulizie. Anche sulla spiaggia antistante c’erano relativamente poche persone a camminare o a fare il bagno. L’oceano era praticamente deserto, senza navi. Strano. Dov’erano gli yacht, i milionari a discutere di affari davanti a un drink, le mogli plastificate in spiaggia a discutere di gossip e a ridere di quanto siano fessi i poveri, i figli privilegiati a farsi i selfie con gli amici, le attrici a spasso coi micro-cani ridicoli?

Possibile che tutte quelle celebrità abbiano una tale etica lavorativa da non concedersi di oziare nelle loro residenze, al contrario di me, sfaccendato in mezzo alla settimana a passeggiare per Malibu? La spiegazione che ho trovato è che in realtà, seppure incredibile da pensare, forse quelle case favolose non siano altro che seconde case per i proprietari super ricchi. Proprietari che non erano lì semplicemente perché stavano in altre delle loro case, o magari erano in viaggio per il mondo.

Un’altro motivo comunque potrebbe essere che la spiaggia di Malibu è brutta. Questa potrebbe sembrare un’affermazione un po’ forte, eppure è proprio l’impressione che ho avuto. Non solo Malibu, estendo questa valutazione a tutte le aree costiere e le spiagge intorno Los Angeles che ho visto: l’oceano non era affatto attraente. L’acqua non era azzurra, ma ovunque un po’ torbida e poco trasparente. Spesso nell’aria c’era una foschia che rendeva l’atmosfera grigia. Quasi mai sono riuscito a vedere in lontananza la linea di separazione netta tra oceano e cielo: era sempre un passaggio sfumato e grigiastro.

Le spiagge non rivelavano tracce di vita: non ho visto pesci nell’acqua (a parte delfini in lontananza). Zero conchiglie sulla sabbia. Davvero uno strano contrasto rispetto al gran numero di animali sulle montagne, a poca distanza. Nessuna struttura dove comprare qualcosa, nemmeno un chiosco minuscolo per comprare almeno da bere. L’oceano come scritto sopra non da certo l’impressione di essere “animato”: pochissime le barche a vela o i motoscafi. Non pervenuti affatto pescherecci, navi da crociera o grosse navi da cargo. Gli unici a cui ho visto “usare” l’oceano sono i surfisti -quelli si- ma anche loro addensati solo in specifiche aree (ad esempio intorno Adamson House).

Una persona del posto mi ha spiegato che questo clima grigio e nebbioso delle spiagge dipende dalla geografia della costa pacifica ed è limitato allo specifico periodo in cui l’ho vista io (aprile – maggio – giugno). Secondo lui grigiore e foschia spariscono subito dopo, e in estate la spiaggia è molto più piacevole per prendere il sole e nuotare. Forse è così.

Los Angeles. La mia impressione di Los Angeles è probabilmente condizionata dall’aver speso più tempo nelle aree migliori, eppure una cosa è certa: il livello generale di ricchezza è enorme. Si vede dalle case lussuose, dalle automobili giganti, dall’aspetto delle persone: ben vestite, ben rasate, ben curate. Nella mia visita al quartiere Beverly Hills ero certo (e divertito) di essere sul podio dei peggio vestiti dell’intera strada. Nel quartiere Venice ho visto un manifesto con una promessa di ricompensa di 20.000 dollari per un gatto smarrito, e credo che non fosse uno scherzo.

Su cosa si basa l’economia di Los Angeles? Oltre alla ovvia quantità di persone legate all’intrattenimento e a Hollywood, ho trovato che un numero sorprendente di persone lavora nel settore immobiliare. Praticamente tutti quelli a cui ho chiesto “cosa fai” mi hanno risposto agente immobiliare, o qualcosa relativo alla compravendita di case. A quanto pare il mercato delle case in città scotta: ho sentito che una proprietà messa sul mercato viene venduta spesso nel giro di una settimana, e questo nonostante i prezzi siano sempre nell’ordine dei milioni.

Che tipo di negozi popolano le strade? A confermare la ricchezza della città si vedono in effetti saloni benessere e palestre per yoga. C’è una selva pazzesca di ristoranti di ogni tipo, in competizione feroce tra loro. Curiosamente ho notato diversi negozi di servizi “psichici”, qualcosa che certo non si vede in Europa, dove invece ci pensano le molte più chiese a catalizzare il desiderio di spiritualità delle persone. Una cosa peculiare (e comica) sono i tantissimi cartelloni stradali con foto di avvocati dallo sguardo risoluto, che offrono assistenza per casi di incidenti stradali o infortuni vari. Sembra proprio che gli Stati Uniti siano sovraffollati da legali a caccia di casi facili, per ottenere risarcimenti di ogni tipo.

Credo comunque che proprio a Los Angeles viva un numero particolarmente alto di imprenditori, autonomi, investitori, aspiranti attori, artisti, o gente che non lavora affatto. In queste categorie rientrano infatti quasi tutte le persone con cui ho chiacchierato. Nelle strade della città le uniche persone che si notano a fare un lavoro “visibile” sono gli operai messicani, che quà e la curano i giardini dei ricchi o fanno ristrutturazioni edilizie. In effetti non ho visto un solo operaio in giro che non fosse messicano.

Proprio il fatto che molte persone non abbiano un lavoro impiegatizio rende un mistero il traffico pazzesco sulle strade della città, per cui Los Angeles ho scoperto essere “famosa”. Io stesso sono rimasto bloccato nell’ingorgo per ore e ore. Però guardavo quel fiume di macchine intorno a me e mi chiedevo: dove sta andando tutta questa gente? Perché si spostano? La congestione è perenne e spesso anche in orari inspiegabili, come in tarda mattinata.

Un paio di note sulle persone di Los Angeles e dintorni, visto proprio che in quest’area ho chiacchierato più spesso con la gente del posto, ed è qui che ho speso gran parte del tempo.

Forse sono stato fortunato, ma ho conosciuto parecchie persone dalle storie interessanti e piacevoli con cui conversare. Naturalmente vivere nella ricchezza rende più facile essere rilassati e bendisposti, eppure mi ha colpito come la gente in generale sembrasse ben adattata alla società. Vedere la gente muoversi così agevolmente tra belle case, bei quartieri e bei negozi mi è sembrato quasi… strano. Dov’era il tormento? Dov’erano le facce preoccupate del mio paesino d’origine in Italia? Dov’era la disfunzione? Quasi chiunque mi salutava con parole gentili e sembrava genuinamente bendisposto. Quando conversavo con le persone, non rilevavo tutto quel pessimismo cronico e quella negatività che invece rilevo spesso parlando con le persone del mio paesino.

Sono sicuro che anche a Los Angeles, in fondo, le persone hanno i loro rodimenti e i loro problemi, eppure in generale ho notato davvero un’ottima interfaccia sociale nella gente. La mia idea in effetti è che “i ricchi” spesso non siano ricchi per caso, ma lo siano proprio per la mentalità che hanno e per il modo di fare le cose. Invece di lamentarsi soltanto usando la tipica formula italiana (“fa tutto schifo – sono tutti corrotti – non ti lasciano fare niente”), a Los Angeles credo che la formula sia invece “vediamo un po’ che tipo di business potrebbe funzionare oggi”. C’è certamente una mentalità più possibilistica e molto più spirito di iniziativa che in Italia.

La crisi di Hollywood. Non è certo un mistero che Hollywood stia attraversando una crisi fortissima, di ricavi ma soprattutto di idee. Di questo in effetti me ne ero accorto già a casa, visto che ormai da anni molti film che arrivano nelle sale sono spazzatura totale: cliché visti e rivisti, vecchi film “rifatti” e riproposti come nuovi, film senza nessuna trama riempiti solo con ammazzamenti e paure, film trascinati in avanti con i “sequel” o indietro con i “prequel”. Produrre qualcosa di nuovo… proprio no eh?

In effetti io ho smesso quasi del tutto di andare al cinema: troppe volte mi sono sentito insultato dal dover pagare sia per vedere film così brutti, sia per dovermi sorbire 20 minuti di pubblicità prima del film stesso. Capita solo raramente che ancora che finisca in una sala, se la proposta parte da qualche amico, e in tal caso il mio approccio è diffidente ma possibilistico: “mah diamo un’occhiata, magari è il caso di riaggiornare la mia valutazione su Hollywood…”. No, ogni volta la valutazione si rinnova: i film che arrivano nelle sale sono ancora spazzatura. Ultima conferma dal film Life con gli attori Jake Gyllenhaal e Ryan Reynolds, che ho avuto il dispiacere di vedere: se fossi un attore famoso nessuna cifra potrebbe convincermi a prendere parte a una simile porcheria.

Comunque tornando a Los Angeles, ero curioso di cercare tracce della crisi proprio nella patria stessa del cinema, e le ho viste. A confermare la completa mancanza di idee, sui manifesti della città venivano pubblicizzati: il film degli emoticon (sul serio?), il film dei puffi (un cartone animato che guardavo da bambino 30 anni fa), l’ennesimo episodio dei Pirati dei Caraibi con la faccia stanca di Johnny Depp, il secondo episodio dei Guardiani della Galassia, e soprattutto molte pubblicità non più di film ma di serie di fiction on-demand, che la gente guarda privatamente a casa, anziché nei cinema.

Non è capitato in questo mio viaggio, ma sarei stato dannatamente curioso di chiacchierare con qualche produttore o attore di Hollywood, per scoprire se confermavano la mia impressione: cioè che i produttori cinematografici a questo punto sono diventati estremamente selettivi nello scegliere quali film produrre, visto che molti film ormai guadagnano briciole rispetto a un tempo, e anzi parecchi causano proprio delle perdite (i cosiddetti “box office bombs”). Per cui non investono più in rischiose novità, ma si fidano solo a riciclare cose che già hanno funzionato in passato. Un esempio è il martellamento continuo sui film con supereroi.

C’è poi un secondo grosso dubbio con cui sono arrivato in California, sperando trovare lumi, ma che invece mi sono riportato a casa perché nessuno mi ha dato una spiegazione convincente. Il dubbio riguarda la reazione così estrema e avversa che Hollywood ha verso l’attuale presidente Donald Trump. Che la California e Hollywood in particolare siano di orientamento liberale lo capisco, eppure questo secondo me non basta a spiegare il livello di oltraggio così alto, proprio nello specifico di Hollywood. Quasi tutti gli attori fanno fiamme contro Trump nelle interviste, sui social media. Un livello di avversione troppo forte per essere spiegato solo dal fatto che “Hollywood è liberale”. Ci deve essere qualche aspetto che mi sfugge, economico o chissà, che probabilmente una persona che sta dentro Hollywood potrebbe spiegarmi meglio.

In realtà in questo periodo a Los Angeles mi è capitato di avvistare un paio di attori famosi, ma non li ho disturbati. Questo è successo nel caffè Starbucks del quartiere Sherman Oaks, dove mi piaceva andare a prendere il caffè la mattina. Il piacere derivava dalla passeggiata che facevo per arrivarci e per l’occasione di studiare la clientela, non certo per il caffè stesso. Ecco infatti a seguire alcuni miei pensieri sul caffè.

Caffè. Gli americani non hanno la minima idea di cosa “caffè” significhi. Cioè la filosofia stessa del caffè che hanno, da italiano non posso che definirla sbagliata e da combattere con tutte le forze! 🙂

In Italia se entri in un bar e chiedi “un caffè” la transazione è semplice e efficiente: il barista ti mette davanti un espresso senza troppe domande, e tu paghi circa 1 euro. Facile. A Los Angeles quando chiedevo “un caffè” negli Starbucks mi facevano strane domande: se volessi la miscela calda o fredda, che livello di tostatura, quanti “shot” ci volevo, se era da portare via. Ogni volta non ci capivamo e finivo per ottenere un caffè diverso a un prezzo diverso (sempre troppo alto). Il fatto è che Starbucks ha dozzine di opzioni sul menù, apparentemente tutte che hanno qualcosa a che fare col caffè, ma nessuna decente. Sono tutti intrugli di caffeina, additivi chimici e zucchero.

C’è comunque una situazione interessante proprio riguardo questa famosa catena di caffetterie, che spiega perché ha avuto tanto successo: ha semplicemente trovato una gigantesca nicchia di mercato scoperta. Una voragine. Strano a pensarci, ma in molte aree degli Stati Uniti praticamente non esistevano i bar prima di Starbucks. C’erano cioè pochissimi locali che corrispondessero (seppure vagamente) a quello che è il bar italiano, ossia un posto dove andare di giorno semplicemente per un caffè, per socializzare o per leggere il giornale. Prima negli Stati Uniti c’erano più che altro solo ristoranti, locali dove fare pasti completi come pranzo e cena. Questa spiegazione me l’ha fornita l’amico di Santa Monica e mi è sembrata molto valida.

Certo Starbucks il concetto di bar l’ha reinterpretato un po’ a modo suo, producendo una “creatura” di cui alcuni aspetti sono sicuramente discutibili (il caffè stesso appunto), ma evidentemente ha trovato una formula che negli Stati Uniti funziona bene, e non solo lì. C’è tra l’altro un paio di differenze positive rispetto ai bar italiani, cioè non vengono vendute né sigarette né lotterie. Proprio il fatto che le sigarette non siano così facili da trovare ovunque nei bar, come invece avviene in Italia, contribuisce al fatto che un numero straordinariamente ridotto di persone fumino negli Stati Uniti. Questo in aggiunta, immagino, a una campagna di demonizzazione del fumo che probabilmente è andata avanti negli ultimi anni.

Naturalmente, oltre a Starbucks per le strade ci sono anche bar indipendenti, che non appartengono alla catena. Sono stato in diversi sia a Los Angeles che nelle altre tappe di questo viaggio. La cosa strana però è che molti di questi indipendenti non mi sono sembrati granché interessati a competere col colosso. Mi è capitato di entrare in bar che non avevano il caffè (“non ce l’abbiamo, lo facciamo solo in inverno”… eh?) o che l’avevano già “finito” dopo pranzo (), o che chiudevano completamente -i bar stessi- alle tre del pomeriggio, cioè proprio quando uno vuole barare con la caffeina contro l’abbiocco pomeridiano. Davvero bizzarro.

Ancora oggi comunque, tra i tanti Starbucks e i bar indipendenti sparsi qua e là, mi è sembrato che ci siano ancora grosse aree del paese scoperte. Più di una volta con i miei amici abbiamo dovuto guidare per un bel pezzo, consultando la mappa sul telefono, a caccia di un bar dove fare una pausa caffè.

Cibo. Per quanto riguarda i supermercati. Naturalmente non speravo di trovare cibo con l’alto livello di qualità e freschezza che si trova in molti supermercati italiani, però ho trovato che tutto sommato spendendo tanti soldi a Los Angeles si riesce a portare a casa una spesa discreta. Il che rientra bene nel quadro di questa città, in cui gli abitanti sono più ricchi e più attenti alla salute che nella media degli Stati Uniti.

Frutta e verdura di buona qualità si trovano abbastanza facilmente, anche biologici. Il problema però c’è ed è nei cibi di origine animale, cioè formaggi, pesce e carne: quasi niente è fresco. Un po’ di pesce si vede ma sembra sempre di qualche giorno. Tra i formaggi la scelta è molto limitata, e quelli di qualità migliore sono tutti importati e davvero costosi. Il pane fresco, quello che per noi italiani è il “filone”, non esiste proprio, solo scaffali di pane confezionato e spesso con additivi chimici. Tra le particolarità dei supermercati, al confronto con quelli italiani e spagnoli, ho notato sezioni enormi di integratori alimentari e pillole di ogni tipo, e cassieri più gentili e professionali. Naturalmente la gentilezza dei cassieri fa parte dell’interfaccia lavorativa, ma è comunque piacevole da trovare.

Per quanto riguarda i ristoranti invece, dove in questo periodo sono andato molto più spesso del solito (che è quasi mai). Come detto a Los Angeles ci sono ristoranti con cucine di tutto il mondo. Ho provato alcuni nuovi piatti interessanti, soprattutto della cucina asiatica. Però ho anche realizzato che, più che in Europa, nel cibo dei ristoranti ci possano essere additivi pericolosi e della cui presenza è difficile sapere, visto che non ci sono etichette dettagliate da consultare.

Ad esempio, una volta sul menu di un ristorante ho visto l’indicazione “senza glutammato di sodio” su un piatto, che mi ha fatto chiedere: ma quindi in tutti gli altri cibi in cui questa indicazione non c’è… il glutammato qui ce lo possono mettere tranquillamente? Dopo questo episodio ho alzato il livello di guardia, eppure nonostante ciò, più avanti in questo viaggio (quando ero in Louisiana in realtà) mi sono distratto comunque e ho commesso un grave errore: ho condito il mio cibo con una salsa di cui solo successivamente mi è venuto in mente di controllare l’etichetta. Tra i vari “ingredienti” che avevo mandato giù c’era l’alluminio…

Una differenza netta con i ristoranti italiani e spagnoli: il servizio è molto veloce ovunque. Quasi sempre ti siedi a un tavolo, e subito arriva il cameriere con i menu e per prendere gli ordini delle bevande. Pochi minuti per consultare il menu, e il cameriere è già di ritorno con le bevande e per prendere gli ordini del cibo. Tutto si svolge così rapidamente che spesso ho dovuto chiedere tempo supplementare per scegliere, più di una volta. La meccanica è esattamente opposta a quella di Italia e Spagna, dove invece nei ristoranti spesso ci vuole un’eternità prima di essere serviti.

Una cosa strana che succede nei ristoranti americani è che i camerieri passano in continuazione durante il pasto per chiedere se “va tutto bene?”. Una volta o due sarebbe anche ok, un segno di premura gradito, ma a volte è successo anche 4-5 volte durante lo stesso pranzo e la scena si è fatta francamente ridicola. Mi chiedo se negli Stati Uniti i ristoranti, che come scrivevo sopra sono in un settore ferocemente competitivo, dipendano moltissimo dalla reputazione online costruita con le recensioni dei clienti, per cui hanno sviluppato quasi una sorta di terrore di ricevere giudizi negativi.

Ultima nota, che è un fatto risaputo: le mance. Ogni volta che si mangia in un ristorante bisogna stare a perdere tempo per calcolare le percentuali. Un meccanismo davvero inefficiente che hanno negli Stati Uniti, e che fortunatamente non è diffuso in Italia e Spagna. Certo teoricamente le mance incoraggiano un miglior servizio, ma questo non giustifica davvero la perdita di tempo. Oltretutto a contribuire a rallentare la fase del pagamento, ho fatto caso che le banconote americane hanno tutte un colore simile (un beige/giallo smorto), per cui è difficile distinguere un pezzo da 1, 5 o 10 dollari senza analizzarle. Strano che ogni pezzo non abbia un colore diverso.

Agricoltura. La California mi è sembrata avere un clima davvero favorevole per l’agricoltura, ma questo potenziale l’ho visto sfruttato solo minimamente: pochissimi i campi coltivati e pochissimi gli orti vicino le case. Ho visto parecchie viti, il vino lo fanno senz’altro, ma ad esempio non ho visto quasi per niente gli ulivi, che a occhio direi crescerebbero bene da queste parti.

Mi è sembrato comunque che molti californiani siano concentrati a fare “landscaping” nei loro giardini ma solo per motivi estetici, piantando in effetti molti bei fiori ed alberi ornamentali, ma che invece non siano affatto concentrati a piantare frutta e verdura vicino casa, che preferiscono comprare nei supermercati, a caro prezzo e di importazione. Davanti le case ho notato che spesso non piantano nemmeno il minimo indispensabile, come almeno un vaso con le erbe per cucinare.

Nevada

Las Vegas. Las Vegas è come uno se la aspetterebbe: la folla, le luci, i casinò. Decisamente interessante da vedere una volta nella vita, ma certo non l’agitazione in mezzo a cui vorrei vivere a lungo termine. Questo vale per il centro comunque, ci sono aree periferiche e residenziali della città in cui sono sicuro che si possa fare una vita più “normale”. Arrivando in macchina, già dalle prime occhiate ho visto che il livello di ricchezza generale di Las Vegas è certamente più basso di quello di Los Angeles.

La cosa più interessante dei casinò è stato notare come tutto sia studiato scientificamente per mungere al massimo i visitatori. Il tipico casinò (io sono stato all’Excalibur) non è una struttura a sè stante bensì una combinazione: un grattacielo al cui piano terra c’è l’effettivo casinò e ai cui piani superiori c’è l’hotel. Per cui gli ospiti dell’hotel sono costretti ad attraversare le sale da gioco per entrare o uscire dall’hotel.

Il piano terra dove si gioca è grande, labirintico e volutamente carente di indicazioni, perdersi è facile e si finisce sempre a spendere più tempo tra le slot machines e i tavoli da gioco. Non ci sono orologi alle pareti a ricordarti che il tempo passa. Se ti siedi a un tavolo da gioco (io l’ho fatto a un tavolo di blackjack dove ho perso 20 dollari) passano periodicamente delle cameriere a offrirti drink gratuiti. Naturalmente essere un po’ alticci fa perdere le inibizioni e aiuta a scommettere un po’ di più.

Un’altro fatto che ho notato è che l’hotel in cui sono stato aveva decisamente un prezzo basso considerato l’ottimo livello delle camere. Anche qui ci ho visto una furbizia: attraggono i visitatori rendendo abbordabile la permamenza in albergo, perché sanno che poi i soldi veri gli ospiti li lasceranno nel casinò, dove avviene la parte effettiva della mungitura.

Sia nei casinò che per le strade di Las Vegas, ho notato una differenza nell’aspetto delle persone rispetto a Los Angeles. Qui ho cominciato a vedere più persone con pance, qua e là obese, e in generale non più così ben curate. Come mi aveva anticipato uno dei miei amici, con cui avevo commentato la buona forma delle persone a Los Angeles: “non ti preoccupare, a Las Vegas vedrai persone molto più tipicamente americane”. Nonostante questo, anche a Las Vegas continuava a valere il fatto meraviglioso visto nell’area di Los Angeles: quasi nessuno fumava sigarette.

Steve Pavlina. Durante la mia visita a Las Vegas ho avuto la fortuna di incontrare Steve Pavlina, un blogger che risiede proprio in questa città e che ha accettato il mio invito per un caffè e una chiacchierata. Il caffè in realtà l’ho bevuto solo io e gli amici che erano con me, Steve aveva iniziato da pochi giorni un digiuno di sola acqua, che ha poi protratto fino a 40 giorni (!).

Per me è stata davvero un’occasione speciale, Steve è un uomo brillante e il suo lavoro mi è stato utilissimo negli anni, infatti l’ho ringraziato sentitamente. Lui è senz’altro una delle persone che più hanno influenzato la mia filosofia di vita, e in effetti il fatto stesso di essere lì, di potermi permettere di viaggiare negli Stati Uniti per un periodo lungo mesi, è venuto anche dall’aver messo in pratica le sue idee sul reddito passivo. Il suo popolare articolo “10 ragioni per non avere un lavoro” è stato un contributo fondamentale a farmi realizzare che il mio lavoro impiegatizio di qualche anno fa era una totale pagliacciata, e in effetti ormai non passa giorno che non benedica la decisione di averlo silurato.

Ci sono anche un altro paio di aspetti che mi hanno reso felice di questa chiacchierata. Il primo è che ero assolutamente a mio agio nella conversazione, una conquista considerato che questo è proprio il tipo di eventi che a volte mi rendono ansioso, fino addirittura ad avere uno dei miei proverbiali attacchi di panico. Il secondo è che anche un altro degli amici seduti al tavolo apparteneva a quel “club” di persone per me speciali, che mi hanno ispirato e aiutato molto nella vita. Sapete il detto “circondati di persone più intelligenti di te”? Ecco seduto al tavolo con questi due, che avevo riunito io stesso, ho pensato sorridendo: “è proprio quello che sto facendo adesso, si sto facendo le cose bene!”.

Louisiana

New Orleans. Davvero interessante vedere New Orleans e la Louisiana dopo aver speso parecchio tempo a Los Angeles. Il contrasto è stato forte: sono passato da una delle aree più ricche del paese a una delle più povere.

Le caratteristiche per cui New Orleans è famosa le ignoravo (quasi sempre viaggio verso destinazioni su cui mi informo pochissimo in precedenza) e le ho scoperte solo una volta arrivato sul posto: ad esempio che la città è rinomata per la musica dal vivo, l’arte, la cucina creola, l’architettura particolare. Non sapevo nemmeno che una percentuale così alta degli abitanti fosse composta da neri. Immagino che molti siano discendenti degli schiavi che un tempo lavoravano nelle piantagioni di canna da zucchero. Le piantagioni esistono ancora e le ho viste attraversando la Louisiana in macchina.

Varie cose mi hanno colpito. Decisamente un cambio drastico nell’aspetto della gente. Molte più persone seriamente obese, e purtroppo un numero impressionante di persone con problemi fisici, storture, zoppicanti o su sedia a rotelle, soprattutto tra i neri. Un bel po’ di persone ubriache in strada e dall’aspetto per niente lucido. Credo che sia facile a New Orleans “farsi prendere” dal tema dei pub, dei ristoranti, la musica jazz da ascoltare con una birra davanti, le parate, la vita “da artista” tatuato che fuma e usa qualche droga, e molti finiscano per subirne gli effetti sulla salute fisica e mentale. Un altro fattore comunque è sicuramente la dieta.

La Lousiana è uno degli stati più ciccioni degli Stati Uniti e si vede. Un paio di volte ho preso nota che dentro il ristorante io e i miei amici eravamo gli unici clienti non grassi. In effetti la cucina della Louisiana sarà famosa, ma con me francamente è stata un disastro. La riassumerei così: tutto fritto. C’è il pesce ma è soprattutto pesce di bassa qualità: gamberi che sospetto provenire quasi tutti da allevamenti, crawfish (simili ai gamberi) che oltre a generarmi lo stesso sospetto quando li mangi devi buttare via il 90% del corpo, il pesce gatto che è un pesce di fondale. Per un quasi-vegetariano come me c’è la combinazione “riso bianco e fagioli”, non proprio qualcosa che andrei a chiedere al ristorante ma che avrebbe almeno potuto riempirmi, però ho scoperto presto che i fagioli venivano cucinati in stufati “gumbo” con carni di chissà quale provenienza. Certo poi c’è altro: la “Jambalaya” che è un misto stracotto di riso verdure e carne, una polenta chiamata “grits”, e per i turisti il panino con l’alligatore. Niente comunque che sembrasse non dannoso per la salute. Tra le poche eccezioni forse le ostriche.

Anche i supermercati mi hanno dato parecchie indicazioni. Innanzitutto sembravano davvero pochi: interi quartieri ne erano del tutto privi. Tra quelli che ho visto molti contenevano la parola “dollar” nel nome: family dollar, dollar general, dollar tree, a segnalare chiaramente l’intenzione di rivolgersi a una clientela che di dollari non ne ha molti da spendere. Tra gli scaffali una tristezza: prodotti confezionati, impacchettati, additivi chimici, quasi niente fresco. Frutta e verdura biologiche un lontano miraggio, almeno a Los Angeles spendendo una fortuna si trovavano. Mi sono ritrovato a comprare acqua confezionata venduta in quei flaconi di plastica alla cui forma noi italiani associamo la candeggina e i detersivi. E il sapore stesso dell’acqua era cattivo. Davvero.

Sono un po’ critico anche per quanto riguarda la scena musicale e artistica di New Orleans. La mia impressione è che il jazz sia nato da queste parti, ma poi si sia un po’ perso per strada. Molta della musica dal vivo mi è sembrata appunto il risultato di alcol, fumo e fritti: poca ispirazione e parecchio rumore. Molte band per strada non suonavano altro che “cover” di canzoni già esistenti, peggiorate rispetto all’originale (anche qui, produrre qualcosa di nuovo… proprio no eh?). La reputazione artistica della città si riferisce più che altro a mercatini di antiquariato, oggetti di decorazione, scelte di abbigliamento meno convenzionali delle persone. Sicuramente è interessante da vedere, ma non risuona troppo con il mio concetto di “arte”.

Una cosa che ho apprezzato di New Orleans però è l’architettura, molti quartieri sono davvero carini. La tipica casa è una casa “shotgun”, lunga e stretta, di legno, con tinte pastello. Sotto i tetti ci sono dei capitelli di legno con ricci e motivi floreali (“brackets”), e già solo quelli abbelliscono le case di tantissimo. Parecchi edifici comunque sembravano aver bisogno di una sistemata, soprattutto di una tinteggiatura. Questo è un business che credo funzionerebbe bene a New Orleans, dove in generale ho notato un numero particolarmente basso di negozi o attività commerciali di qualunque tipo (a meno dei negozi legati al turismo in centro).

Sono stato anche nella zona colpita dall’uragano Katrina nel 2005, ma non ho visto segni evidenti del passaggio dell’uragano. C’erano però parecchi lotti di terreno vuoti. Immagino che ormai dopo tanti anni le macerie che c’erano da rimuovere siano state rimosse, e molta gente si sia spostata.

Altre zone. Ho avuto l’occasione di vedere anche altre zone della Louisiana, spostandomi in macchina. Il paesaggio è senz’altro particolare: tutto piatto, con una costa molto frastagliata, paludi, sotto un sole cocente e con una forte umidità. In effetti il mio livello di energia fisica nelle due settimane di permanenza è precipitato rispetto al normale.

Nelle campagne e sulla costa le case presentavano una novità rispetto a quelle di New Orleans città: parecchie erano sopraelevate, su palafitte alte anche parecchi metri. Chiaramente per evitare le inondazioni. Molte comunque sembravano inutilizzate. Ho visto le antiche case padronali delle piantagioni, ormai quasi tutte trasformate in musei. L’agricoltura dello stato sembra continuare a consistere solo e esclusivamente in canna da zucchero: non ho visto altro piantato da nessuna parte. Dovrebbero esserci risaie da qualche parte, considerato sia il territorio favorevole che la forte presenza di riso nella cucina locale, ma io non le ho viste. Qua e la ho notato dei grossi stabilimenti industriali, credo che fossero raffinerie di petrolio.

Una delle cose più interessanti è stata vedere le paludi, un altro scenario naturale molto diverso sia da quello di casa, sia da quello visto in California e Nevada. Nelle paludi ho visto per la prima volta gli alligatori liberi, immobili sui tronchi o sul bagnasciuga, in attesa di prede. Strano in effetti ritrovarmi con questi animali, “teoricamente” pericolosi, mischiati così con naturalezza nel mio stesso paesaggio. Quelli che ho visto comunque erano relativamente piccoli, ho avvistato anche dei baby alligatori molto carini. Credo però che sott’acqua potessero esserci stati alligatori grandi, lunghi qualche metro, di quelli che una persona tutto sommato se la mangerebbero pure. Non mi sono tuffato per verificare.

In auto con i miei amici abbiamo guidato lungo la costa verso est, fino a vedere anche un pezzetto dello stato di Mississippi. Anche da queste parti l’oceano (in questo caso l’affaccio è sul Golfo del Messico) mi è sembrato francamente “brutto” e un po’ triste, seppure aveva un certo fascino malinconico. Solo una distesa di sabbia bianca sotto il sole cocente, niente arbusti, niente conchiglie, niente pesci, niente barche. Quasi nessuna persona in spiaggia. Strano.

Baja California

Per pochi giorni ho sperimentato anche un pezzettino di Messico, cioè la penisola di Baja California che sta poco sotto Los Angeles. Decisamente un altro gran bel contrasto.

Avevo in mente questa sciocca immagine del paesetto messicano in collina, i signori coi baffoni a suonare la chitarra, altri abbioccati sotto il cappello sombrero a fare la siesta, le ragazze more con le gonne colorate, i bambini che giocano, i sorrisi, i cactus. Non è proprio quello che ho visto. Naturalmente mi aspettavo che il Messico non stesse “ben messo” come gli Stati Uniti, ma non pensavo che se la passassero male come ho visto. Francamente, pensavo stessero un po’ meglio.

Tijuana. Sicuramente a contribuire a questa impressione è stata Tijuana, la prima città messicana che si incontra subito appena varcato il confine. Solo pochi chilometri sopra c’è San Diego, che fa ancora parte degli Stati Uniti e appare ricca e ordinata, pochi chilometri sotto c’è Tijuana, che fa già parte del Messico, e si presenta come un intrico di baracche, favelas, traffico disordinato, macchine scassate, mendicanti. Il cambio di scenario è davvero drastico e improvviso.

La mia visione di Tijuana comunque è avvenuta solo di passaggio, dalla macchina. Non ci siamo fermati, anche perché chiunque in California era stato concorde nel dire che “non è sicura. Magari ci vai e non ci sono problemi, ma meglio soggiornare da altre parti”. Non credo comunque che Tijuana rappresenti la tipica cittadina messicana, probabilmente è un po’ “peggio” per la posizione geografica, proprio al confine con gli Stati Uniti, che immagino l’abbia resa un crocevia per traffici di vario tipo, tra cui sicuramente la droga.

Ensenada. Questo è un paesino costiero dove ho passato tre giorni, e già Ensenada mi è sembrata decisamente un posto tranquillo e sicuro. Ha una certa vocazione turistica, considerati i negozi di souvenir e i ristoranti, anche se in effetti di turisti americani non ne ho visti molti. Considerati i prezzi bassi, la costa non male, e che è a portata di mano per i californiani, potrebbero essercene di più, ma forse effettivamente non si fidano comunque a venire neanche qui.

A Ensenada ho visto e mangiato un po’ di pesce fresco (anche se persino quello al mercato sul porto non sembrava proprio freschissimo, almeno non come quello che vedo nei mercati di Italia e Spagna). Nel porto c’erano moltissime navi di pescatori attraccate, però la mattina ne vedevo uscire per mare solo due o tre, le altre tutte ferme. La “scena” culinaria non mi è sembrata sensazionale, anche se è proprio a Ensenada che ho avuto sia il miglior caffè che la migliore cena di tutti i due mesi e mezzo di questo viaggio. Per pura casualità, il caffè era in un bar italiano e la cena era in un ristorante italiano.

Per le strade ho notato alcune particolarità, la prima piuttosto curiosa è che molte farmacie pubblicizzavano con una certa enfasi che vendevano Viagra. Mi chiedo se è perché gli uomini da queste parti sono particolarmente concentrati sul sesso, o se la vendita si rivolge ai turisti americani che magari possono comprare il farmaco a prezzi più bassi. Ho notato anche un numero grande e decisamente inusuale di cartelli “cercasi personale”, da parte di negozietti sia nella cittadina che nei dintorni. L’ho trovato strano considerato che l’economia della zona è visibilmente tutt’altro che “in fermento”. Mi viene da pensare che si tratti di lavori in cui pagano una tale miseria, che per molte persone del posto sia praticamente indifferente averli o meno.

Tra le cose che ho scoperto in questo viaggio ci sono gli show televisivi messicani. Sono davvero… degni di nota! Qualcosa che mi ha lasciato a bocca aperta davanti alla tv: affascinato e inorridito allo stesso tempo. Le parole “trash” e “agghiaccianti” non riescono nemmeno a rendere l’idea di cosa trasmettono da queste parti.

Apparentemente il concetto di intrattenimento negli show messicani è un gruppone di persone buttate dentro uno studio televisivo, con travestimenti grotteschi, che ballano, si fanno sgambetti, si danno pizzichi sulle braccia, si mettono elastici sulla faccia mentre fanno il karaoke, ammiccano, ondeggiano, con la telecamera che si sposta da una persona all’altra, sul sottofondo di musica allegra. In effetti uno dei miei amici mi ha fatto notare che uno dei personaggi del cartone i Simpson, l’uomo-ape, è proprio la caricatura di uno dei personaggi di questi show messicani. Sono rimasto comunque abbastanza sconvolto: giuro che non mi lamenterò più degli show spazzatura italiani, il peggiore dei quali trasmette comunque altissima filosofia rispetto a quelli messicani!


Note: Qualche tempo fa l’articolo “10 ragioni per non avere un lavoro” l’ho rielaborato in forma personale, producendo una versione in italiano che si trova a questo link.

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